Salviamo la domenica

No, non c’è solo la Chiesa cattolica a chiedere che la domenica resti un giorno festivo realmente libero. Ieri è stata presentata al Parlamento europeo un’iniziativa comune per difendere il settimo giorno, quello speciale. L’hanno avanzata europarlamentari di diversi partiti, assieme a sindacati, associazioni, espressioni della società civile. E – potessero firmare appelli all’Unione europea – migliaia e migliaia di bambini che reclamano un giorno per loro. Perché «la domenica mamma e papà appartengono a noi!», come recita lo slogan della campagna Free sunday (domenica libera).
L’azione nasce in vista della nuova direttiva sui tempi di lavoro che la commissione europea sta preparando. Ma risponde anche alle pressioni sempre più forti che, nei vari stati nazionali, vengono dal settore del commercio a fare della domenica un "normale" giorno di lavoro e soprattutto di shopping. In Gran Bretagna la liberalizzazione è già stata approvata nel 1994, in Francia la polemica è rovente perché il governo preme per una maggiore apertura dei negozi, sperando così di spingere i consumi e riprendersi dalla crisi. In Italia, la legislazione nazionale è ferma a 8 domeniche di apertura oltre a quelle di dicembre, ma in realtà in molte regioni le saracinesche dei negozi possono restare alzate anche fino a 32 domeniche l’anno o tutte e 52 se si tratta di località turistiche. L’ultimo contratto del settore del commercio, inoltre, prevede che i lavoratori non possano rifiutarsi di prestare la loro opera nella maggior parte dei giorni festivi.
 Che poi le maggiori aperture domenicali portino effettivamente un incremento delle vendite – e, di conseguenza, contribuiscano a far crescere l’occupazione e il benessere sociale – resta ancora tutto da dimostrare. Molto più concreti appaiono invece gli effetti negativi sulla vita familiare dei lavoratori – costretti a programmazioni improbabili per passare qualche giornata con i figli – "tagliati fuori" da buona parte delle attività sociali concentrate tra il sabato e la domenica, ostacolati nell’esercizio dell’attività comunitaria, religiosa o laica che essa sia. In una parola, un ulteriore contributo a quella disgregazione del tessuto sociale già ampiamente in atto in Italia come nel resto d’Europa. E che vede proprio i grandi centri commerciali quale epicentro della trasformazione. Nuovi (presunti) luoghi di aggregazione, dove però lo stare insieme è comunque subordinato all’acquistare, al vendere, allo scambio profittevole. L’esatto contrario di quella gratuità che è il segno costitutivo di un autentico rapporto sociale e più ancora di quello familiare.
La domenica non è semplicemente il giorno del riposo, ma il tempo degli affetti, della cura familiare, dello stare insieme come comunità. E ancora, della riflessione personale e della preghiera per i credenti. Un tempo speciale perché sincronizzato con quello degli altri. Di festa proprio perché libero, nel quale in fondo esprimiamo ciò che di più autentico siamo.
La domenica si può passare in mille modi e ce ne sono molti certamente peggiori che non lavorare (quanto tempo buttiamo in un dinamismo utile solo a riempire il vuoto che ci spaventa?). Ma non c’è attività economica o soddisfazione personale che possano eguagliare la ricchezza educativa e affettiva di un pomeriggio passato a fare i biscotti con i bambini, stendere insieme le tagliatelle o anche solo tirare due calci a un pallone. Fare qualcosa – tutti insieme – in un giorno nostro. È il lusso della vera libertà che vogliamo riconquistare.
Francesco Riccardi in Avvenire del 25/03/2010

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