Oggi ho deciso di perdonare
Ogni anno, per la precisione il 21 marzo, l'associazione "Libera" organizza eventi per ricordare le vittime della mafia. Quest'anno la giornata è stata celebrata a Milano, con un corteo a cui hanno partecipato tantissime persone, tra le quali i familiari delle vittime di mafia.
Leggendo dell'iniziativa sul quotidiano Avvenire, mi ha particolarmente colpito la testimonianza di Debora Cantisano, che desidero condividere con voi.
"Lollò Cantisano era un bravo fotografo e una persona perbene. Aveva una bella famiglia e aveva coronato il sogno di una vita, comperarsi una casetta in riva al mare per l’estate a Bovalino Marina. La ’ndrangheta lo rapì nel 1993, la famiglia pagò il riscatto, ma lui non fece mai più ritorno.E per dieci, terribili anni di lui non si è saputo più nulla.
«Poi – racconta Debora, sua figlia, 38 anni – nel 2003 ricevo una lettera anonima. Un uomo indicava il punto dove è stato sepolto e racconta a che i sequestratori l’avevano ucciso per errore. Volevano tramortirlo, ma lui era morto per un colpo ricevuto in testa. Aveva 56 anni. Il medico legale ha confermato che lo hanno ammazzato sfondandogli il cranio. La lettera si concludeva con una dichiarazione di pentimento e la richiesta di perdono».
Debora non si è mai arresa, ha sempre reagito al dolore impegnandosi.
«Dopo il sequestro organizzammo un comitato di giovani, fu una cosa che fece rumore a Bovalino. Volevamo tenere viva l’attenzione. Sono stati anni allucinanti, la speranza che mio padre fosse vivo non mi ha mai abbandonato. Almeno abbiamo potuto seppellirlo, rispetto ad altri siamo stati fortunati». Questa donna piccola e forte si è avvicinata a Libera, si è impegnata negli incontri con i giovani. Oggi la casa sul mare di Lollò ospita campi estivi. Soprattutto, in lei è maturato il desiderio di perdonare l’assassino del papà.
«Quella lettera mi ha colpito. Sono credente e se uno decide di pentirsi, significa che ha compiuto un cammino. Credo che un assassino possa cambiare e possa sinceramente diventare un’altra persona. Questo me lo diceva anche mio padre». Così oggi Debora ha deciso di incontrare i detenuti del carcere di Reggio Calabria.
«Non sono boss, sono la manovalanza delle ’ndrine. Ma mi siedo di fronte a loro e racconto la storia di mio padre. Tutto qui. In genere da questo nasce un confronto. Credo che questo possa essere di sprone per chi ha sbagliato». Per prevenire altro male e riparare quello che è stato fatto".
Leggendo dell'iniziativa sul quotidiano Avvenire, mi ha particolarmente colpito la testimonianza di Debora Cantisano, che desidero condividere con voi.
"Lollò Cantisano era un bravo fotografo e una persona perbene. Aveva una bella famiglia e aveva coronato il sogno di una vita, comperarsi una casetta in riva al mare per l’estate a Bovalino Marina. La ’ndrangheta lo rapì nel 1993, la famiglia pagò il riscatto, ma lui non fece mai più ritorno.E per dieci, terribili anni di lui non si è saputo più nulla.
«Poi – racconta Debora, sua figlia, 38 anni – nel 2003 ricevo una lettera anonima. Un uomo indicava il punto dove è stato sepolto e racconta a che i sequestratori l’avevano ucciso per errore. Volevano tramortirlo, ma lui era morto per un colpo ricevuto in testa. Aveva 56 anni. Il medico legale ha confermato che lo hanno ammazzato sfondandogli il cranio. La lettera si concludeva con una dichiarazione di pentimento e la richiesta di perdono».
Debora non si è mai arresa, ha sempre reagito al dolore impegnandosi.
«Dopo il sequestro organizzammo un comitato di giovani, fu una cosa che fece rumore a Bovalino. Volevamo tenere viva l’attenzione. Sono stati anni allucinanti, la speranza che mio padre fosse vivo non mi ha mai abbandonato. Almeno abbiamo potuto seppellirlo, rispetto ad altri siamo stati fortunati». Questa donna piccola e forte si è avvicinata a Libera, si è impegnata negli incontri con i giovani. Oggi la casa sul mare di Lollò ospita campi estivi. Soprattutto, in lei è maturato il desiderio di perdonare l’assassino del papà.
«Quella lettera mi ha colpito. Sono credente e se uno decide di pentirsi, significa che ha compiuto un cammino. Credo che un assassino possa cambiare e possa sinceramente diventare un’altra persona. Questo me lo diceva anche mio padre». Così oggi Debora ha deciso di incontrare i detenuti del carcere di Reggio Calabria.
«Non sono boss, sono la manovalanza delle ’ndrine. Ma mi siedo di fronte a loro e racconto la storia di mio padre. Tutto qui. In genere da questo nasce un confronto. Credo che questo possa essere di sprone per chi ha sbagliato». Per prevenire altro male e riparare quello che è stato fatto".
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