La fede e la ragione nell'enciclica Lumen Fidei

Il rapporto tra fede, ragione e verità è un tema portante dell’enciclica Lumen Fidei, come dice già il titolo: la fede come luce. Per contro, nell’epoca moderna – soprattutto a partire dagli illuministi, fatte le debite eccezioni – si è pensato che la fede «potesse bastare per le società antiche, ma non servisse […] per l’uomo diventato adulto».
La fede è stata infatti considerata o «un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco», o tuttalpiù come una conoscenza che però è solo soggettiva, che dunque «non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune» per rischiarare il cammino di ogni uomo, oppure come malattia infantile di un’umanità che la doveva debellare per essere adulta e uscire dallo stato di minorità, oppure come «oppio dei popoli», come annebbiamento della ragione, una falsa consolazione utilizzata per mantenere rendite di potere, per occultare la verità. In molti modi, dunque, la fede è stata dissociata dalla ragione e dalla verità oggettiva.
Sennonché, è emerso che «la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza», perciò l’uomo d’oggi «ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande», e «Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male». In sostanza, qui si allude al percorso che ha portato dall’Illuminismo all’Idealismo (con un certo ruolo anche dello scientismo), con quest’ultimo che asseriva la possibilità per l’uomo di squadernare, prima o poi, tutta la verità, senza soccorso di una divina rivelazione e senza lasciare alcun margine di mistero.
Per diversi motivi, in particolare per reazione a questa superba pretesa, si è poi gradualmente generato il relativismo odierno (menzionato nel paragrafo 25 dell’enciclica). Se del relativismo ci sono molteplici accezioni, quella considerata da Francesco è la versione che nega la possibilità per l’uomo di conoscere una verità oggettiva, in particolare su Dio, sullo scopo della vita umana, sul bene/male. Infatti, se non è possibile conoscere la verità, non è possibile giudicare oggettivamente gli atti umani, nemmeno le azioni che siamo soliti considerare estremamente crudeli e malvagie.
Inoltre, se la fede «si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda», diventa un aspetto della vita «soggetto al mutarsi del nostro animo» e «incapace di sorreggere un cammino costante». Piuttosto, come dice l’enciclica, l’incontro tra il cristianesimo e il pensiero filosofico del mondo antico è stato «un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli» ed è cruciale in ogni tempo che il credente nutra e consolidi la sua fede con ragionamenti e con argomenti, perché perfino alcuni grandissimi santi (come Giovanni della Croce o Madre Teresa) hanno sperimentato periodi, anche molto lunghi, di aridità interiore. Tali argomenti consentono di perseverare, di non abbandonare la sequela del Maestro, di restare saldi.
Consentono inoltre di proporre Dio anche a chi non condivida già la fede cristiana, a chi non si sia mai af-fidato alla Chiesa. Perciò il rapporto tra filosofia e rivelazione è cruciale e ha ricevuto la trattazione di un’intera enciclica – la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, richiamata da Papa Francesco – e di tanti interventi di Papa Ratzinger.
Alla base di tutto sta il fatto che fede e ragione non sono due facoltà umane distinte: esiste un’unica ragione, che talvolta conosce da sola, talvolta invece conosce af-fidandosi ad altri, configurandosi come «ragione credente» ( Lumen fidei, 27 ).

Giacomo Samek Lodovici in Avvenire del 16 luglio 2013

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