Profughi senza famiglia

Tra i profughi che sbarcano nelle nostre coste tanti sono i bambini e i ragazzi. Che ne è di loro?
Le loro storie raccontate da Viviana Daloiso in Avvenire del 24 dicembre 2017.

«Bella, l’Italia. Io posso camminare libero per la strada, senza la paura di morire». Ihsan lo dice sorridendo e poi scappa via, per continuare la partita. Sono una quindicina, assiepati attorno al calciobalilla: afghani, eritrei, algerini, egiziani. Pantaloni larghi, cappellini girati, cuffie all'orecchio. Eccoli qui, i minori stranieri non accompagnati. La sigla sui report statistici e nei lavori parlamentari è “msna”: numeri d’un fenomeno dirompente, negli ultimi anni. Di cui l’Italia – fuori da queste quattro mura a due passi dalla Stazione Centrale, nel cuore di Milano – sa poco o nulla.
Cosa vuol dire, arrivare da soli su un barcone a 15 anni? Cosa significa crescere senza genitori, lontani da casa, in una terra che non conosci? Perché, si parte?
Basta una mattina per scoprirlo al Civico Zero di Save the children.
Il luogo che non c’è da cui ricominciano tante storie. Alle nove il piccolo atrio – una vetrina anonima affacciata sulla strada – pullula di ragazzi. Sembra d’essere in una scuola italiana: ci sono le figurine, i diari zeppi di scritte, le chiacchiere, la musica. E la scuola inizia davvero, nel giro di qualche minuto, perché qui i minori tutti i giorni vengono – liberamente, dalle comunità e dai centri di accoglienza della metropoli e dell’hinterland– a imparare l’italiano.
 «Bella l’Italia e bello l’italiano» dice ancora Ihsan, col suo sorriso infinito: a 14 anni è arrivato delegittimato via mare, da solo, ed è così contento quando gli mettono in mano la scheda di lavoro. Figure a cui abbinare parole: c’è la penna, la sedia, il temperino. Bello tutto, per Ihsan. «Guarda, ho imparato a scriverlo da solo “temperino”».
Oggi l’insegnante è ammalata e allora a far lezione pensa Mahdi, che di mestiere al Civico Zero fa il mediatore culturale. È tunisino, ha poco più di 30 anni e anche lui una storia di speranze tradite, nel suo Paese, da cui è partito per venire in Italia a studiare. I ragazzi lo considerano una specie di autorità, «come in generale tutti gli adulti con cui entrano in contatto – racconta Valentina Polizzi, anima della struttura che coordina per Save the children dalla sua nascita, nel 2014 –. Il fatto che sono soli, che hanno intrapreso il loro viaggio senza i genitori, trasforma ogni figura adulta in un punto di riferimento, da rispettare e ascoltare». In effetti non vola una mosca, in questa lezione d’italiano con 25 adolescenti dagli 11 ai 17 anni di tutto il mondo. È una famiglia strampalata e straordinaria: il grande che aiuta il piccolo, il forte che aiuta il debole, Fabio che non alza mai lo sguardo dal foglio, Miji che scrive tutto impettito alla lavagna.
«L’italiano è tutto, per loro, è la garanzia di potersi costruire un futuro e di andare a lavorare – continua Valentina –, ecco perché la loro risposta in termini di risultato a volte è impressionante: abbiamo ragazzi che in un mese parlano la nostra lingua, in tre sanno scriverla».
Questo anche perché molti di questi minori hanno studiato, nei loro Paesi: «Le famiglie li hanno fatti partire proprio perché tenevano a loro particolarmente, perché volevano garantirgli un futuro». Figli prediletti, mandati a vivere – o morire, non importa – altrove. È il caso dei ragazzi eritrei, in particolare. Come Sekou, 15 anni: «A casa mia avrei dovuto fare il soldato, avrei portato il fucile. E forse mi avrebbero costretto a uccidere qualche mio amico, persino mio fratello potevo uccidere, lo capisci?». Certo che no. Sekou ci ha messo 4 anni ad arrivare in Italia, è partito che ne aveva 11: l’hanno rapito tre volte, lungo la strada, venduto e comprato, poi l’abisso della Libia, di cui non racconta niente, nemmeno a Mahdi. Al Civico Zero lo prendono in giro perché sta sempre al telefono con la sua mamma: «Tutti i giorni, a tutte le ore, parla con lei – racconta Valentina –. E lei una volta a settimana chiede di parlare con qualcuno di noi, lui ce la passa».
La mamma, da un altro Continente, chiede se beve abbastanza latte, Sekou, «perché deve crescere», e vuol sentirsi dire che studia, che si comporta bene. «Un giorno io la porterò qui» sussurra lui, e giù a studiare di nuovo, a scrivere “matita” e “temperino” perché appena dopo l’Italia la salvezza è l’italiano, per questi ragazzi.
 A fine lezione c’è qualche colloquio individuale: i mediatori (uno parla il tigrino, due l’arabo) accolgono i ragazzi, le loro richieste, i loro dubbi. Gli altri ricominciano il biliardino o ascoltano il rap di Master Sina, il minore non accompagnato che racconta la sua storia su Youtube e registra decine di milioni di visualizzazioni tra l’Italia e la Tunisia. Il giovedì c’è il laboratorio d’arte e di video, il venerdì li portano al parco a giocare, o in gita nei musei. A Natale la tombola, non importa se cristiani o musulmani. «Non ci sono queste cose da dove vengo io – continua Faraji coi suoi 11 anni, e i baffetti sul viso da bimbo – perché c’è regime». Non sa spiegare cos'è, ma la tombola e il calciobalilla «sono meglio. Questo lo so».

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