E se la riservatezza non fosse solo un diritto ma anche un dovere?

Già dalla scuola primaria i nostri studenti postano immagini che li riguardano. So che amano tantissimo creare storie in Instagram. Gli alunni mi dicono che durano 24 ore per poi sparire. Ma spariscono veramente?
Credo che, contrariamente a tutta questa affannosa ricerca di celebrità che i ragazzi, e non solo, cercano attraverso i social, sia necessario riscoprire quella che considero una virtù: la riservatezza. «Essere riservati - trovo in un articolo di Popotus del 25 settembre -, infatti, non significa avere qualcosa da nascondere. Molto più semplicemente, significa preferire il silenzio agli schiamazzi, significa non mettersi in mostra, significa conservare nel proprio cuore quello che abbiamo di più caro anziché parlarne con il primo che capita»
In un suo bellissimo testo, Dove gli angeli esitano, Gregory Bateson  fece l’elogio del sacro, che identificava con il silenzio, la riservatezza, il rispetto per quelle zone della vita dove, riprendendo un verso di Alexander Pope, gli angeli esitano a posare il piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti. Penso che oggi, aiutati (?!) anche dalla tecnologia, di vociferanti stolti se ne trovino parecchi.
Abbiamo veramente bisogno di recuperare la dimensione "sacrale" della nostra vita, evitando di sbandierare ai quattro venti tutto quello che ci riguarda.
Gli amici non sono quelli di Instagram o di Facebook, ma quelle care e rare (non si possono avere 5000 amici) persone con cui è possibile aprire il cuore.
Se la privacy (oggi ci piace usare questo termine) è un diritto, io penso che debba anche essere un dovere da insegnare ai bambini. Non sto certamente "istigando" all'omertà, ma a quel senso del limite che ci permette di difendere noi stessi dall'indiscrezione altrui.
La riservatezza sarà anche fuori moda, ma rimane l’unico strumento che ci permette di non sprecare niente della nostra vita.


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