La responsabilità dei campioni dello sport

Mentre leggevo l'articolo ho pensato ai "miei" studenti dello Sportivo. I ragazzi lo sanno che ho un'idea sullo sport che sa di antico: il vero agonismo non è contro qualcuno, ma è esercitarsi alla disciplina, al sacrificio, alla lealtà. Certo che vincere è bello e dà soddisfazione, ma non può essere a tutti i costi. Ma anche perdere con dignità ha un grande valore. 
Visto il clamore di questi giorni che ha riguardato un grande campione, vi lascio queste righe di Mauro Berruto, pubblicate su Avvenire del 19/01/2022. 

Per tanti giorni si è discusso intorno a un’idea: un atleta, oltre a produrre una performance e offrire ai suoi tifosi, definiamola così, una dimensione estetica del gesto tecnico, deve essere un modello di comportamento? Deve ispirare? Deve trasmettere valori oltre che fare gol, canestri, schiacciate? O quanto meno deve sentire un senso di responsabilità, in quanto possessore di una piattaforma di visibilità e di un megafono che amplifica a dismisura la sua voce? 
Più volte mi sono espresso su questo tema attraverso questa rubrica settimanale, non voglio aggiungere il mio punto di vista. Così, nella stessa settimana in cui avremmo festeggiato l’ottantesimo compleanno di Muhammad Alì, l’atleta che forse più di tutti nella storia dello sport ci ha insegnato che uno sportivo, anche quando in attività, è chiamato a schierarsi e a dire come la pensa, lascio spazio alle parole scritte personalmente da Dan Carter, leggendario mediano d’apertura degli All Blacks, pubblicate sul sito “The Players Tribune” in occasione del suo ritiro nel febbraio del 2021. Eccole: 
«A vent’anni giocavo a rugby e lavoravo part-time, vivendo in casa con un gruppo di universitari. Avevo l’ambizione di diventare un professionista, ma a quel tempo il mio obiettivo principale era riuscire a pagare l’affitto. Un giorno venni fermato da un uomo per strada. Mi salutò e iniziò a parlare come se ci conoscessimo bene. Parlammo a lungo di rugby e durante l’intera chiacchierata continuai a chiedermi chi fosse. Un mio vecchio professore? Un amico di mio padre? Alla fine capii, non conoscevo quell’uomo. Era semplicemente qualcuno che mi aveva visto giocare nel weekend. Quell’uomo aveva dedicato 20 minuti del suo tempo a una conversazione con me, solo perché aveva apprezzato il mio modo di giocare, il mio modo di interpretare lo sport che tanto amavo. Per questo quando iniziai a ricevere molte lettere dai fans, decisi che avrei risposto a tutti. 
Ho sempre apprezzato e non ho mai dato per scontato il fatto che tanti tifosi convogliassero le loro emozioni nelle mie performance sportive. Ci sono tante cose che fanno faticare le persone, che le fanno lottare nella vita, cose che spesso quelle persone non possono controllare. Tutti abbiamo le nostre battaglie, ma sapere che per 80 minuti gli appassionati potevano guardarmi giocare e annullare il loro stress quotidiano è stato speciale per me. 
Mentre la mia carriera progrediva ho imparato molto riguardo al potere dello sport e di quanto una singola partita possa avere un impatto sugli altri. Il più grande esempio di tutto ciò l’ho vissuto nel 2011, quando Christchurch venne messa in ginocchio da un enorme terremoto. La comunità fu colpita duramente e per una grossa parte di essa il rugby divenne un modo per sfuggire al trauma che stava vivendo. Non ho mai fatto parte di una squadra in grado di lavorare più duramente di quella: il nostro obiettivo era regalare qualcosa per cui potersi sentire positivi a quelle persone che stavano soffrendo. Nel momento del ritiro, la mia più grande speranza è che le mie gesta abbiano acceso la scintilla in almeno un ragazzo, che quella scintilla lo motivi a dedicare tutto sé stesso a un sogno impossibile. E forse quel ragazzo, investendo cuore e fatica, potrà capire che i sogni impossibili, dopotutto, non sono così impossibili». 

Accendere una scintilla, far brillare gli occhi, lasciare una traccia, un segno, un marchio, un’eredità. Ecco la responsabilità dei campioni dello sport.







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