Felice chi arriva ad avere il proprio volto

Chi ha più o meno la mia età, se pensa all'adolescenza dovrebbe ricordare quanto fosse conflittuale il rapporto con la propria faccia e il proprio corpo in generale: ossessionati dai brufoli (chi più, chi meno), da un naso che sembrava troppo piccolo o troppo grande, da un corpo che appariva sgraziato (troppo magro o troppo grasso). Per tutti gli adolescenti è così, anche per quelli di oggi che sono però, a differenza di noi "vecchietti", ancora di più vittime di modelli che, pur essendo frutto di "alchimie" artificiali (dal più "banale" Photoshop all'AI), risultano fortemente reali e per questo pericolosamente ingannatori. E' sempre più frequente sentire di ragazze che per i loro 18 anni chiedono di potersi rifare il seno o il naso, o di ragazzi che, alla ricerca di un corpo più muscolo, sottovalutano i rischi dell'uso di sostanze dopanti. 
Quello che una volta era un passaggio doloroso ma normale che avrebbe portato l'adolescente a riconoscersi/riappropriarsi di quel corpo e di quella faccia, oggi assume i contorni di una tragedia. Tragedia che forse è il frutto della società del "tutto e subito". Se l'attesa, la pazienza, la fatica per ottenere qualcosa sono disvalori, tutto quello che non mi permette di soddisfare l'io nell'immediatezza è qualcosa da cui rifuggire, a costo di un prezzo molto salato. Infatti, nel tentativo di trasformarci in ciò che non siamo finiamo per perderci completamente. 
Completo questa mia riflessione con le parole di Lisa Ginzburg lette in Avvenire dell'11 maggio 2025: «C’è una pagina meravigliosa dello scrittore Joseph Roth in cui scrive che ci vuole molto tempo per arrivare ad avere la propria faccia. Molto tempo per assomigliarsi, diventare infine noi stessi. Certe volte occorre una vita intera, altre volte quella nemmeno basta, per arrivare a dire sui nostri volti ciò che autenticamente sentiamo, e siamo. Lo stesso si potrebbe affermare delle nostre nature, del nostro carattere il più intimo e segreto. Quanto tempo impieghiamo sino a raggiungerlo, impersonificarlo, e ad accettarlo, assumerlo, esprimerlo? Quanto si impiega a diventare quel che si è, e lo si diventa poi per davvero?
Assomigliarsi, essere cioè quanto più possibile vicini a sé stessi, parrebbe essere garanzia di sincerità. L’opposto, l’essere distanti da sé, invece indice di scissione e di potenziale inganno. 
“Io non sono quello che sono” dice Iago, il perfido traditore nella tragedia Otello di Shakespeare, quello che instilla in Otello il tarlo del dubbio che lo renderà folle di gelosia e assassino di Desdemona amatissima moglie. 
“Io non sono questo”: ammetterlo è come già una promessa di inganno. Lontani da noi, allontaniamo tutti gli altri. Felice chi arriva ad avere il suo volto, la sua natura».


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