Il dolore è un dono che va accolto

E' proprio vero che Dio scrive diritto anche nelle righe storte.
L'intervista che segue, tratta da Avvenire del 23 giugno del 2014, è ad una donna che dal male fattole ha saputo trarre una grande forza, tanto da essere di esempio per tutti.

Le mani curate, la voce ferma, il sorriso d’una gioia contagiosa. Lucia Annibali, il simbolo del­le donne che lottano contro la violenza (e la sconfiggono) non è più la persona che la notte del 16 aprile 2013 ha fatto capolino sul pianerottolo di casa, ha infilato le chiavi nella porta e lì – nel posto più sicu­ro al mondo – s’è scontrata con il male.

L’acido che le ha stravolto il viso e la vita, ha anche cambiato profon­damente il suo cuore. E l’ha riempito di fede.
La filosofa tedesca Hannah Arendt parlava di “ba­nalità del male” riferendosi al tentativo di an­nientare il popolo ebraico. Chi ti ha sfregiato vo­leva annientarti...
Il male l’ho potuto toccare e l’ho visto molto chiara­mente. Davvero posso dire che esiste. Ma ho speri­mentato che il bene è più potente, anche se necessita d’essere coltivato perché si propaghi. Il male è banale perché non ha risposte, non può trasformarsi in nul­la, non può creare e non ha nulla da cui attingere co­me esperienza umana.
La pensavi così anche prima dell’aggressione?
Quando ti incontri con la morte devi decidere se vuoi la vita oppure non la vuoi più. È lì che cambia com­pletamente la tua dimensione. Perlomeno, questo è quello che è successo a me.
Oggi cosa sono per te la fede e la preghiera?
Penso che la fede significhi accogliere ciò che ti viene dato. Può essere una cosa bella o brutta. Nel mio caso mi è capitato una grande dolore fisico a cui veramen­te non ero preparata. Un dolore lungo, che lascia de­bilitati e con tante incognite. Se tu lo sai accogliere, lo accetti e lo ascolti, vedi anche le possibilità e le occa­sioni che ci sono dentro. Per me la spiritualità e il rap­porto con Dio sono questo: essere in contatto davve­ro con quello che ti viene mandato e vedere una gra­zia in questa esperienza. Oggi penso che questo even­to sia davvero il senso della mia vita.
Nel tuo libro racconti d’essere rimasta toccata da un gruppo di suore che pregava per te quando rischiavi di rimanere cieca. Che cosa ha significato per te?
Non un gruppo, ma tanti gruppi di suore! Queste pre­ghiere non mi hanno fatto sentire abbandonata. Nel let­to di ospedale, alla fine, sei comunque sola. Nel mio ca­so poi non vedevo. Ecco, io non mi sono sentita sola a lottare per cercare di riconquistare quello che rischia­vo di perdere, che avevo perso e che stavo perdendo. Quelle preghiere mi hanno dato solidarietà. Ho senti­to che molte persone mi volevano bene, mi hanno da­to un senso di vicinanza che mi ha aiutato moltissimo.
Spesso racconti che prima dell’acido non volevi co­struirti una famiglia perché prima volevi realizzarti. Oggi come la pensi?
Non ho mai avuto un forte istinto materno. Ma oggi sen­to forte il desiderio di fare qualcosa di buono, è quasi una necessità per me. Per esempio l’idea di adottare un bambino potrebbe essere l’occasione per mettere in pratica questa intenzione. Anche questo è un modo nuovo che ho di vedere la vita. 

(Intervista di Roberto Mazzoli)

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