I jeans continuano ad uccidere

« Il divieto che abbiamo a­dottato ci impone co­munque di monitorare le condizioni in cui viene svolta la sab­biatura nelle fabbriche dei nostri pro­duttori, pur non essendo più am­messo questo tipo di trattamento». Era il 2010 quando H&M, uno dei grandi marchi della moda, promet­teva solennemente di rinunciare al sand-blasting , l’uso di sabbia spara­ta ad aria compressa sui jeans per ot­tenere il look consumato e vissuto tanto di moda.
Una tecnica pericolosissima per la salute dei lavoratori, perché provoca silicosi fulminanti: la Turchia l’ha messa al bando nel 2009 dopo che u­no studio medico aveva attribuito al­la sabbiatura dei jeans 52 decessi e 1.200 casi di malattia conclamata. So­lenni impegni dello stesso tono di quello di H&M erano stati presi, tra le altre aziende, anche da Levi’s, C&A, Esprit, Lee, Zara e Diesel. Ma l’appa­rente successo della mobilitazione internazionale «Killer jeans», i jeans che uccidono, lanciata dal cartello di associazioni e sindacati Clean Clothes Campaign, la Campagna a­biti puliti, si è rivelata un vittoria apparente.
Dalla verifica sul campo in sette sta­bilimenti di sabbiatura in Banglade­sh – con foto e interviste agli operai – è emerso ora che la sabbiatura non è stata affatto sospesa, qualunque siano state le istruzioni dei commit­tenti. O i marchi hanno raccontato bugie, oppure non hanno verificato il rispetto del cambio di indirizzo.
«La situazione è molto grave», dice Deborah Lucchetti, portavoce della campagna Abiti Puliti. «Al contrario di quanto sostengono pubblica­mente – spiega – i marchi non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti. E nemmeno a rivedere tem­pi e costi di produzione, per permet­tere ai fornitori di adottare metodi al­ternativi che comportino lavorazio­ni più sicure. Il risultato è che conti­nuano a incentivare l’uso, clandesti­no o alla luce del sole, della sabbia­tura ». I ricercatori inviati dalla Campagna Abiti Puliti hanno accertato dunque che negli stabilimenti esaminati si la­vora senza adottare le minime pre­cauzioni. In Europa il tenore di silice nella sabbia non può superare l’1% e le restrizioni severe sulla sabbiatura hanno spinto da tempo l’industria dell’abbigliamento a delocalizzare la produzione. In Bangladesh la sabbia invece può contenere fino al 95% di silice. Le mascherine protettive, per quanto insufficienti, non vengono fornite dalle fabbriche e gli operai le devono comprare a loro spese, le riu­sano anche quando sono inservibi­li, o usano semplici fazzoletti.
Molti stabilimenti poi usano ancora la sabbiatura manuale, coi lavorato­ri che indirizzano il bocchettone. Là dove viene usata la sabbiatura mec­canica (che dovrebbe avvenire in lo­cali fisicamente separati dagli ad­detti), una tecnica adottata dopo il divieto chiesto dai committenti, tut­to avviene in ambienti aperti e sen­za dispositivi di sicurezza. Alcune fabbriche eseguono il sand-blasting di notte per dare meno nell’occhio. Molti lavoratori sono consapevoli dei rischi, ma li affrontano in cambio di paghe più elevate. Il cambio di rotta non può riguardare solo le aziende: «Gli stati – dice Deborah Lucchetti – devono vietare definitivamente la sabbiatura. E l’Unione europea l’im­portazione di jeans sabbiati».
Luca Liverani, Avvenire del 30 marzo 2012
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