In ricordo di Nelson Mandel

L’uomo che insegnò alla sua gente a perdonare per sconfiggere l’odio di Giorgio Ferrari in Avvenire del 7 dicembre 2013

Perdono e riconciliazione. Da un uomo che ave­va trascorso un terzo della propria vita in carcere ci si poteva con qualche legittimità aspettare u­na rivincita fondata sulla violenza e sulla ven­detta.
Ma Nelson Rolihlahla (letteralmente: colui che pro­voca guai) Mandela, l’uomo che dal 1962 al 1990 era ri­masto dietro le sbarre e dieci anni prima aveva rifiutato l’offerta della scarcerazione dal premier Pik Botha in cam­bio della rinuncia alla lotta armata – fece inaspettata­mente una scelta diversa.
Di fronte a questo leader testardo e a tutti gli effetti indi­struttibile rimesso in libertà dal nuovo premier Frederik de Klerk, stavano due popoli dalle disuguaglianze inim­maginabili e dalle aspettative altrettanto opposte: da una parte il vasto pelago della moltitudine nera, gli zulu e gli xhosa, che un regime anacronistico e spietato come quel­lo dell’apartheid aveva segregato nel sottoscala della ci­viltà in nome di una presunta supremazia bianca; dall’al­tra gli afrikaner (una minoranza del 6,5% di origine olan­dese che tuttavia deteneva tutte le leve del potere nel Pae­se) e gli inglesi (il cui capitalismo vorace aveva digerito sen­za troppo imbarazzo l’apartheid rendendoli felicemente compartecipi della spartizione della ricchezza sudafrica­na), accomunati dal timore di perdere beni e privilegi con l’avvento della democrazia e la fine di quel regime segre­gazionista di cui era stato architetto e inventore molti an­ni prima il premier Verwoerd.
Mandela sapeva bene, come lo sapevano i dirigenti del suo partito, l’African National Congress, che un mare d’odio separava i due popoli. Quasi un secolo di umiliazioni, di avvilente servaggio, di milioni di neri chiusi nelle home­land come conigli nelle gabbie erano una polveriera pron­ta ad esplodere alla prima scintilla. Soprattutto nel mo­mento in cui il bianco De Klerk, un afrikaner erede del co­lonialismo olandese, liberava Mandela promettendo una transizione democratica e soprattutto preannunciando la fine dell’apartheid. Per lui, per il boero che tradiva la Sto­ria, il percorso era forse ancor più arduo. La destra estre­ma, le organizzazioni segrete come la Broederbond, gli muovevano contro, qualcuno pensò di eliminare fisica­mente sia lui sia Mandela.
Le cose, fortunatamente, sono andate meglio del previsto. Nel referendum – riservato ai soli bianchi – sulle riforme appena varate, De Klerk ot­tenne il 68% dei consensi. E da quel momento riconcilia­zione e perdono sono state le parole d’ordine della na­scente democrazia sudafricana.
Quanto a Mandela, a gui­dare il già anziano leader nero nel difficile passaggio po­litico è stata verosimilmente la saggezza che gli derivava dai lunghi anni passati in carcere a leggere, a studiare, a compulsare libri.
La leggenda vuole che sia stata la poe­sia di William Ernest Henley «Invictus» a temprarlo e a te­nerlo in vita:
Nella feroce stretta delle circostanze/Non mi sono tirato indietro né ho gridato./Sotto i colpi d’ascia del­la sorte/Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Il premio Nobel condiviso nel 1993 con De Klerk testi­monia come il destino politico di Mandela sia stato in­dissolubilmente legato a quello del premier che abolì l’a­partheid: l’uno senza l’altro, nonostante le reciproche dif­fidenze, le esitazioni, i complessi e a volte prolissi nego­ziati (non sapremo mai se De Klerk ne fosse veramente convinto o piuttosto sentisse il peso della pressione in­ternazionale) non avrebbero mai raggiunto quel risulta­to. Un risultato che è molto lontano dal paradiso sogna­to da molti ed è pieno di contraddizioni: economiche, so­ciali, anche civili nonostante il suffragio universale e la lotta all’Aids e alla diffusa criminalità.
Ma se oggi un nero che calca il suolo sudafricano può dir­si libero lo deve soprattutto a «Colui che provoca guai», quel Mandela attorno al quale negli ultimi giorni si è ra­dunato il cuore della nazione, l’uomo che seppe tenere a freno e poi convincere i più radicali fra i suoi compagni a dare tempo a De Klerk e a scegliere la speranza invece che la vendetta.
Ora che la sua parabola terrena si è conclu­sa, valgono ancora le parole di quella poesia che lo ha gui­dato negli anni:
Dal profondo della notte che mi avvolge/ Buia come un pozzo che va da un polo all’altro/ Ringrazio qualunque Dio esista/ Per l’indomabile anima mia.

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