Sul dialogo
Cosa vuol dire dialogare? Quali sono le condizioni per un dialogo autentico?
Vi propongo alcune riflessioni lette su Avvenire del 22 dicembre 2013.
«Innanzitutto è necessaria una disponibilità all’ascolto dell’altro e un’accettazione della sua diversità: non possiamo scegliere gli interlocutori a nostro piacimento ma dobbiamo fare i conti con chi ci sta concretamente di fronte. Anzi, è importante praticare il dialogo a cominciare dagli interlocutori più vicini, per poi allargarlo progressivamente: è questa una capacità rara ma indispensabile, unitamente alla pazienza che rifugge dal ricorso a facili scorciatoie e ad avventurose corse in avanti, per accettare invece, con una buona dose di umiltà, di ricominciare ogniqualvolta l’obiettivo della reciproca comprensione, della civile convivenza e della pace lo richieda.
Possiamo allora fare a meno del dialogo? Nella stagione che attraversa la società a livello planetario, la domanda non si pone nemmeno: rifiutare il dialogo significa semplicemente scegliere il conflitto come linguaggio di scambio, lasciare che la parola passi alle armi. Le dimensioni globali del confronto etico, sociale, economico sono tali, infatti, che l’alternativa al dialogo non sia un rinchiudersi nella propria autosufficienza, ma il lasciare campo libero a quanti del dialogo non ne vogliono sapere e lo considerano un fastidioso protocollo da soddisfare formalmente per poter passare il più rapidamente possibile a strumenti più sbrigativi e violenti.
Allora, nella difficile stagione di dialogo che attende la nostra società, il ruolo che attende i cristiani non è solo quello di fornire argomentazioni solide e motivate in difesa di principi e valori imprescindibilmente legati all’annuncio del vangelo, ma è anche quello di sostenere tali affermazioni con una prassi concreta, quotidiana: saper ascoltare tutti è ciò che caratterizza uno spazio di autentica libertà in cui è possibile il formarsi di un’opinione condivisa, il recupero di quella parresia, di quella onestà di pensiero e franchezza di parola che fa parte dello statuto cristiano e che resta 'buona notizia' per il mondo intero». (Enzo Bianchi)
«Chi crede che l’altro sia per definizione nel torto non ha chiaramente alcun interesse ad ascoltare un punto di vista opposto al proprio. Un dialogo non è il faccia a faccia di un gruppo contro l’altro, in cui ognuno crede di dover dire noi e non io, e di avere la missione di difendere una volontà di potenza contro un’altra. Un dialogo diventa serio quando il rispetto reciproco va al di là della semplice civiltà, e quando, come diceva Paul Tillich, «il dialogo con l’altro è anche un dialogo con se stessi». Quando si è tanto generosi o lucidi da capire che gli elementi che sono nell’altro sono, potrebbero o avrebbero potuto essere anche in noi stessi. Siamo lontani dal political training , per cui agli indigeni del Sud e dell’Est hanno insegnato a pensare e parlare bene come nella metropoli. Niente a che vedere nemmeno con le intimazioni imprecatorie e rancorose per le quali solo il Nord è colpevole, e di tutto. Qui siamo solidali e corresponsabili, per fare in modo di rendere questo mondo comune, nonostante e con tutte le nostre differenze, un po’ meno omicida di quanto non lo sia già».(Regis Debray)
Vi propongo alcune riflessioni lette su Avvenire del 22 dicembre 2013.
«Innanzitutto è necessaria una disponibilità all’ascolto dell’altro e un’accettazione della sua diversità: non possiamo scegliere gli interlocutori a nostro piacimento ma dobbiamo fare i conti con chi ci sta concretamente di fronte. Anzi, è importante praticare il dialogo a cominciare dagli interlocutori più vicini, per poi allargarlo progressivamente: è questa una capacità rara ma indispensabile, unitamente alla pazienza che rifugge dal ricorso a facili scorciatoie e ad avventurose corse in avanti, per accettare invece, con una buona dose di umiltà, di ricominciare ogniqualvolta l’obiettivo della reciproca comprensione, della civile convivenza e della pace lo richieda.
Possiamo allora fare a meno del dialogo? Nella stagione che attraversa la società a livello planetario, la domanda non si pone nemmeno: rifiutare il dialogo significa semplicemente scegliere il conflitto come linguaggio di scambio, lasciare che la parola passi alle armi. Le dimensioni globali del confronto etico, sociale, economico sono tali, infatti, che l’alternativa al dialogo non sia un rinchiudersi nella propria autosufficienza, ma il lasciare campo libero a quanti del dialogo non ne vogliono sapere e lo considerano un fastidioso protocollo da soddisfare formalmente per poter passare il più rapidamente possibile a strumenti più sbrigativi e violenti.
Allora, nella difficile stagione di dialogo che attende la nostra società, il ruolo che attende i cristiani non è solo quello di fornire argomentazioni solide e motivate in difesa di principi e valori imprescindibilmente legati all’annuncio del vangelo, ma è anche quello di sostenere tali affermazioni con una prassi concreta, quotidiana: saper ascoltare tutti è ciò che caratterizza uno spazio di autentica libertà in cui è possibile il formarsi di un’opinione condivisa, il recupero di quella parresia, di quella onestà di pensiero e franchezza di parola che fa parte dello statuto cristiano e che resta 'buona notizia' per il mondo intero». (Enzo Bianchi)
«Chi crede che l’altro sia per definizione nel torto non ha chiaramente alcun interesse ad ascoltare un punto di vista opposto al proprio. Un dialogo non è il faccia a faccia di un gruppo contro l’altro, in cui ognuno crede di dover dire noi e non io, e di avere la missione di difendere una volontà di potenza contro un’altra. Un dialogo diventa serio quando il rispetto reciproco va al di là della semplice civiltà, e quando, come diceva Paul Tillich, «il dialogo con l’altro è anche un dialogo con se stessi». Quando si è tanto generosi o lucidi da capire che gli elementi che sono nell’altro sono, potrebbero o avrebbero potuto essere anche in noi stessi. Siamo lontani dal political training , per cui agli indigeni del Sud e dell’Est hanno insegnato a pensare e parlare bene come nella metropoli. Niente a che vedere nemmeno con le intimazioni imprecatorie e rancorose per le quali solo il Nord è colpevole, e di tutto. Qui siamo solidali e corresponsabili, per fare in modo di rendere questo mondo comune, nonostante e con tutte le nostre differenze, un po’ meno omicida di quanto non lo sia già».(Regis Debray)
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