La bambina-kamikaze che non obbedì alla morte
Una storia pubblicata su Avvenire del 14 febbraio 2016, che ci fa sperare che ci si può ribellare ai portatori di morte.
Erano in tre, poco più che bambine. Le avevano lasciate davanti al campo profughi di Dikwa, nel Nordest della Nigeria, gremito da decine di migliaia di rifugiati. I terroristi di Boko Haram le avevano costrette a nascondere sotto le lunghe vesti le cinture gonfie di esplosivo. Le avevano portate lì la sera, ordinando di aspettare il mattino: nell’ora in cui migliaia di profughi sarebbero stati in fila per una ciotola di zuppa, in quel momento le tre dovevano farsi esplodere, per mietere più vittime. Deve essere stata una lunghissima notte, quella della quattordicenne di cui un lancio della Associated Press dalla Nigeria non fa il nome. Perché lei – chiamiamola A. – non voleva. Non voleva uccidere quella gente, fra cui, temeva, c’era forse anche suo padre. Allora durante la notte, tra i giacigli dei profughi, tra i pianti dei bambini e i lamenti dei vecchi, nell’odore greve della miseria, sussurrando, A. ha cercato di convincere le due compagne: non facciamolo, come si può ammazzare questi bambini, queste donne? Ma le compagne, come la stessa A., erano terrorizzate. Che cosa avrebbero fatto loro quelli di Boko Haram, se non avessero obbedito? Qualcosa di peggio, addirittura, che morire dilaniate dall’esplosione. Sì, deve essere stata una notte interminabile quella della fanciulla che non voleva obbedire alla morte. Nel buio, nella ressa di povera gente addormentata, quel mormorio ostinato, come una preghiera. E infine il chiarore del giorno. I profughi che penosamente si mettono in fila per ricevere una razione di cibo. Le donne con l’ultimo nato in braccio, e gli altri attaccati alle gonne. Fame, sete, vestiti laceri, piedi piagati dalle marce. Migliaia in fuga da Boko Haram. Ma non sapevano che il terrore li aveva raggiunti. Era nei volti di tre ragazzine, era nei loro occhi di docili vittime e assassine. Al mattino, dal campo di Dikwa due esplosioni laceranti. E sangue ovunque, e grida di madri impazzite, e rantoli di agonizzanti. 65 morti, centinaia di feriti. Ma, la terza esplosione non c’è stata. A. si è ribellata al suo destino, A. è scappata. Ai soldati di guardia ha consegnato la sua cintura di esplosivo. Non volevo uccidere questa gente, ha detto, non volevo rischiare di uccidere mio padre. Forse perché cercando suo padre nella folla ha ritrovato i suoi stessi occhi nelle facce di mille sconosciuti, forse per questo A. si è fermata? Nemmeno la paura della vendetta è stata più forte che quel vedere, in ogni volto, un uomo; non un nulla, non carne da macello, come pretendono i signori del terrore. All’alba, nel massacro, nel sangue, a Dikwa una bambina inerme si è fatta donna audace: riconoscendo in sé, tenace, una vita più forte della morte.
MARINA CORRADI
Erano in tre, poco più che bambine. Le avevano lasciate davanti al campo profughi di Dikwa, nel Nordest della Nigeria, gremito da decine di migliaia di rifugiati. I terroristi di Boko Haram le avevano costrette a nascondere sotto le lunghe vesti le cinture gonfie di esplosivo. Le avevano portate lì la sera, ordinando di aspettare il mattino: nell’ora in cui migliaia di profughi sarebbero stati in fila per una ciotola di zuppa, in quel momento le tre dovevano farsi esplodere, per mietere più vittime. Deve essere stata una lunghissima notte, quella della quattordicenne di cui un lancio della Associated Press dalla Nigeria non fa il nome. Perché lei – chiamiamola A. – non voleva. Non voleva uccidere quella gente, fra cui, temeva, c’era forse anche suo padre. Allora durante la notte, tra i giacigli dei profughi, tra i pianti dei bambini e i lamenti dei vecchi, nell’odore greve della miseria, sussurrando, A. ha cercato di convincere le due compagne: non facciamolo, come si può ammazzare questi bambini, queste donne? Ma le compagne, come la stessa A., erano terrorizzate. Che cosa avrebbero fatto loro quelli di Boko Haram, se non avessero obbedito? Qualcosa di peggio, addirittura, che morire dilaniate dall’esplosione. Sì, deve essere stata una notte interminabile quella della fanciulla che non voleva obbedire alla morte. Nel buio, nella ressa di povera gente addormentata, quel mormorio ostinato, come una preghiera. E infine il chiarore del giorno. I profughi che penosamente si mettono in fila per ricevere una razione di cibo. Le donne con l’ultimo nato in braccio, e gli altri attaccati alle gonne. Fame, sete, vestiti laceri, piedi piagati dalle marce. Migliaia in fuga da Boko Haram. Ma non sapevano che il terrore li aveva raggiunti. Era nei volti di tre ragazzine, era nei loro occhi di docili vittime e assassine. Al mattino, dal campo di Dikwa due esplosioni laceranti. E sangue ovunque, e grida di madri impazzite, e rantoli di agonizzanti. 65 morti, centinaia di feriti. Ma, la terza esplosione non c’è stata. A. si è ribellata al suo destino, A. è scappata. Ai soldati di guardia ha consegnato la sua cintura di esplosivo. Non volevo uccidere questa gente, ha detto, non volevo rischiare di uccidere mio padre. Forse perché cercando suo padre nella folla ha ritrovato i suoi stessi occhi nelle facce di mille sconosciuti, forse per questo A. si è fermata? Nemmeno la paura della vendetta è stata più forte che quel vedere, in ogni volto, un uomo; non un nulla, non carne da macello, come pretendono i signori del terrore. All’alba, nel massacro, nel sangue, a Dikwa una bambina inerme si è fatta donna audace: riconoscendo in sé, tenace, una vita più forte della morte.
MARINA CORRADI
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