Ma Dio si è distratto?

Così intitolava ieri un giornale, riferendosi alla tragedia che ha distrutto le vite di ventidue bambini che tornavano da una vacanza sulla neve.
La vignetta , sempre di ieri, pubblicata nel mio blog non si riferiva assolutamente a questo lutto.  E' vero comunque che Dio lo tiriamo in ballo di fronte a lutti e tragedie, anche quando nel corso della vita non ce ne siamo mai curati.
Non me la sento di dare risposte (che senso ha del resto pontificare di fronte a drammi del genere). Ma la tristezza che provo pensando a quelle mamme private dei loro figli, mi spinge ad affidarmi alle parole di Davide Rondoni, pubblicate su Avvenire di ieri.

«Ora ci vuole la delicatezza. Dopo che l’abbattimento, la disastrata pietà e la ferita, acuta, di un duro sbigottimento ci sono arrivati addosso con la notizia dei bambini morti nell’incidente in Svizzera. Ci vuole la delicatezza, per noi che assistiamo da lontano e però ci sentiamo vicini. Tornavano da una settimana di vacanza, promossa da un’associazione cattolica. Un colpo duro, un aprirsi di qualcosa come un vuoto nella mente e nel cuore.
L’ingiustizia suprema di una morte innocente. Ingiustizia che morde e la cui ferita non è lenita da nessuna consolazione. Da nessuna possibile giustificazione.
Quando avvengono fatti del genere si tende a sopprimere lo sgomento. C’è chi lo fa gettandosi in una curiosità spesso morbosa e infine ingiuriosa, un po’ infame, sui dettagli della cronaca. I media si prestano con insana furia a questo pasto. Si accomodano in questa trafila abietta. Poi c’è chi si volta dall’altra parte. Chi non vuole vedere, non intende sopportare. Non intende cioè portare questa cosa addosso. Come se non esistesse, o si trattasse di un altro mondo inguardabile, il mondo dell’orrore. E dunque dedica il minimo di attenzione e poi riposa gli occhi il altre faccende. In altre notizie di cronaca. Meno dure. Meno insopportabili. E invece noi vogliamo restare con gli occhi fissati sul fatto.
Guardarlo con la delicatezza che occorre e senza ripararci da nulla. Senza riparare la nostra carne, la nostra fede, la nostra intera vita anche di padri e madri di piccoli come quelli, esattamente come quelli, dal colpo, dal disastro.
La sventura che ha rapito i piccoli nella galleria, lo sbandamento del pullman e della vita che li ha consegnati a un destino misterioso, ci chiede prepotentemente, con la prepotenza che il cielo ogni tanto usa con gli uomini che dormono: voi, tu, a cosa state pensando veramente? A cosa state dedicando le vostre energie? Come si può stare in una vita che – come dice l’umile grandiosa Lucia alla fine dei Promessi Sposi, il capolavoro più vilipeso da noi italiani – conosce dei guai che arrivano senza che ce li cerchiamo, e come i guai le tragedie come questa? Cosa significa stare umanamente in questo frangente?
Girare gli occhi non è umano. Ficcare gli occhi in questioni secondarie e in dettagli morbosi non è umano.
Dev’essere delicato lo sguardo, rispettosissimo. E però non voltarsi. Non ripararsi. Come la delicatezza di uno che piange in silenzio e ricapitola in sé le ragione del vivere e morire. Se ci sono, se le ha viste. Perché di questo si tratta, ogni volta in cui la vita e la morte unite ci colpiscono e urgono. Così unite come in un piccolo bambino tolto al suo futuro, in un bambino di cui noi abbiamo vissuto e vivremo gli anni quasi usurpandoli, come gridava Ungaretti di fronte al figlioletto perso a nove anni.
Si tratta di questo: di ricapitolare le ragioni del vivere e del morire. Quella ricapitolazione fulminea, sapiente e delicatissima che ci fa dire – stringendo i denti, con un sospiro o con una cattedrale di fede nel cuore – aprendo le braccia: sono Tuoi, Signore, tienili.
Nessun altro atteggiamento è umano. Nessun altro atteggiamento è delicato e vero. Senza questa ferita apertura al mistero consegneremmo quei piccoli vivaci viaggiatori solo a un’altra morte o alla nostra misura di emozioni, cieca e febbrile. Sono Tuoi. È l’unica cosa giusta, in questa ingiustizia».

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