La morte non avrà dominio
Offro a due persone che amo questo riflessione piena di speranza:
«E la morte non avrà dominio». È il verso finale di una poesia memorabile del grande Dylan Thomas. Un verso che risponde alla domanda fondamentale dell’uomo, se tutto cessa con la morte, o se esiste una vita ulteriore. La domanda primigenia, a cui cercano risposte le religioni, i filosofi, i poeti. La risposta di questi ultimi è piuttosto una scoperta: a differenza del filosofo, che ricerca attraverso la ragione, il poeta, più similmente al mistico, viaggia spiritualmente e incontra delle visioni. Come risponde Dylan Thomas? Nel modo drammatico e complesso, che la poesia esige. Affermare che la morte non esiste, a chi sta perdendo una persona amata, o sta sentendo spegnersi la propria vita, è inefficace. E sarebbe anche una scappatoia, per un poeta, che deve guardare il mondo con gli occhi degli uomini, non dei profeti, e parlare con la lingua dei profeti, umanata. La risposta, il verso finale, ha qualcosa dell’esperienza del mistico ma una tremenda forza di fango umano. Un poeta non sopporta la sofferenza dei suoi simili, spesso sta male anche per quella di un uccellino o di una pianta. Non può rivolgersi a un malato terminale tranquillizzandolo con l’affermazione che la morte non esiste. Non è nella sua natura e nel suo compito. No, ma può cantargli a piena voce che la morte esiste, e non avrà, non avrà dominio.
FONTE: Roberto Mussapi su Avvenire del 22 settembre 2012
«E la morte non avrà dominio». È il verso finale di una poesia memorabile del grande Dylan Thomas. Un verso che risponde alla domanda fondamentale dell’uomo, se tutto cessa con la morte, o se esiste una vita ulteriore. La domanda primigenia, a cui cercano risposte le religioni, i filosofi, i poeti. La risposta di questi ultimi è piuttosto una scoperta: a differenza del filosofo, che ricerca attraverso la ragione, il poeta, più similmente al mistico, viaggia spiritualmente e incontra delle visioni. Come risponde Dylan Thomas? Nel modo drammatico e complesso, che la poesia esige. Affermare che la morte non esiste, a chi sta perdendo una persona amata, o sta sentendo spegnersi la propria vita, è inefficace. E sarebbe anche una scappatoia, per un poeta, che deve guardare il mondo con gli occhi degli uomini, non dei profeti, e parlare con la lingua dei profeti, umanata. La risposta, il verso finale, ha qualcosa dell’esperienza del mistico ma una tremenda forza di fango umano. Un poeta non sopporta la sofferenza dei suoi simili, spesso sta male anche per quella di un uccellino o di una pianta. Non può rivolgersi a un malato terminale tranquillizzandolo con l’affermazione che la morte non esiste. Non è nella sua natura e nel suo compito. No, ma può cantargli a piena voce che la morte esiste, e non avrà, non avrà dominio.
FONTE: Roberto Mussapi su Avvenire del 22 settembre 2012
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