Chi ha rubato il Natale e il resto?

di MIMMO MUOLO su Avvenire del 09/11/2012

Qualche tempo fa mio figlio Giuseppe mi ha chiesto: «Papà, ma Natale non è la fe­sta di Gesù Bambino?». «Certo», gli ho risposto. E lui prontamente: «Ma allora perché quasi tutti parlano di Babbo Natale e così poco di Gesù Bambino?». Confesso che la do­manda mi ha spiazzato, anche per­ché i bambini, si sa, hanno una ca­pacità di guardare le cose che noi a­dulti, per rispetto delle cosiddette convenzioni sociali, per superficia­lità o semplicemente perché in quel momento stiamo facendo altro, spesso e volentieri perdiamo. Così, in quel periodo prenatalizio di qual­che anno fa, ho co­minciato a guardar­mi intorno, a osser­vare meglio la realtà (televisione, giorna­li, pubblicità, discor­si della gente e quant’altro) e mi so­no accorto che l’o­biezione di mio figlio aveva un qualche fondamento. Emer­ge un fenomeno so­cio- culturale di vaste proporzioni che toc­ca, purtroppo, non solo il Natale, ma an­che le altre principa­li feste cristiane. Accade infatti che proprio il Natale sia ormai diventata – specie nell’Occiden­te industrializzato – una festa senza fe­steggiato. O meglio, con un surrogato di festeggiato: il Babbo Natale di tante pubblicità dalla ma­trice scopertamente consumistica. Pasqua, invece, passa per una gene­rica «festa della primavera», l’As­sunta risulta quasi completamente assorbita nel solleone del Ferragosto e Ognissanti, soprattutto presso il mondo giovanile, rischia di soc­combere all’invadenza di Hal­loween. La prima immagine che mi è venu­ta in mente è quella di una sorta di scippo. O meglio, per effetto delle correnti culturali dominanti, viene operata sul dna delle feste cristiane una sorta di mutazione genetica, che pur mantenendone inalterato il no­me e la struttura formale, ne cambia profondamente l’identità e in so­stanza le svuota del loro vero signi­ficato. Le motivazioni di questa mu­tazione, o se si vuole dello scippo, possono essere apparentemente di­verse. Ma la radice è unica e investe la sfera profonda dell’essere cristia­ni oggi, la corretta antropologia e in definitiva la stessa organizzazione sociale. Vediamo alcuni esempi.  
Il Natale e Buzzati

Dino Buzzati, in un suo racconto, afferma che «di Natale ce n’è trop­po ». Troppo Natale in senso con­sumistico. E troppo poco nel suo vero significato. Ricordo, infatti, che dopo l’osservazione di mio fi­glio, mi capitò di guardare in tivù un cartone animato americano che sembra essere la quintessenza di questo atteggiamento. Vi si nar­rava la storia di una muta di cani randagi che dovevano salvare il mondo da una sciagura incom­bente: il furto del Natale ad opera di una 'banda' di altri cani molto cattivi, non a caso disegnati come i feroci doberman. Ma il furto del Natale consisteva u­nicamente nella volontà dei 'catti­vi' di cancellare per sempre dalla faccia della Terra l’usanza di scam­biarsi i regali. Del resto, non è così anche nelle migliaia di spot e mes­saggi pubblicitari che ogni anno, i­nondano letteral­mente tivù, giorna­li, internet e cartel­loni stradali? Gli auguri di Natale non hanno più al­cun riferimento e­splicito alla nascita di Gesù. Punta a­vanzata di questa tendenza è l’on­nipotente Google, una sorta di ora­colo del nostro tempo. Di solito quando c’è l’anniversario di nasci­ta o di morte di un grande perso­naggio, l’home page del sito viene ridisegnata con caratteri particola­ri, ispirati proprio alla figura del commemorato. Se poi si porta il puntatore del mouse sul grande logo che campeggia nella pagina, una didascalia spiega: «Anniversa­rio della nascita (o della morte) di» e segue il nome del personaggio in questione. Il 25 dicembre 2011, invece, insie­me a un logo ridisegnato con il consueto cappellino rosso e la ne­ve, c’era scritto solo «Buone feste». Gesù censurato da Microsoft? Non solo. Nel 2010 la Commissione Eu­ropea ha prodotto più di tre milio­ni di copie di un diario dell’Ue per le scuole secondarie che non con­tiene nessun riferimento al Natale, ma include festività ebraiche, mu­sulmane e persino indù e sikh.  
La quaresima rimossa
Per la Quaresima, invece, più che di uno scippo si è trattato di una ri­mozione che ha fatto levaQsu a­spetti psicologici, per diventare comportamento diffuso. Si è insi­stito, insomma, sulle privazioni che l’ascesi comporta, presentan­dole come aspetti negativi che li­mitano la libertà dell’uomo. E si è agito soprattutto sulla semantica, trasformando a poco a poco il si­gnificato della parola Quaresima. Così il tempo di preparazione spi­rituale alla Pasqua, pian piano è diventato un periodo in cui biso­gna sacrificarsi a tal punto da ri­nunciare ad ogni tipo di umane soddisfazioni. Ma è proprio così? I Padri della Chiesa avevano in pro­posito un’idea completamente di­versa. Per san Giovanni Crisosto­mo, ad esempio, questo periodo assomigliava a «una palestra con i suoi esercizi e il suo addestramen­to ». In un clima culturale come quello odierno che esalta la cura del corpo, che vede il pullulare di palestre e circoli sportivi, perché non proviamo anche a noi a risco­prire la Quaresima come una pale­stra dello spirito, che ci consente di tenere allenata la nostra vita di fede? In tal modo anche gli aspetti di privazione, insiti nella spiritua­lità quaresimale, non diventano fi­ni a se stessi, ma solo dei mezzi per raggiungere un risultato. In fondo non è così anche nello sport? Chiunque abbia praticato, a qual­siasi livello, una disciplina agoni­stica sa bene che non tutti gli stili di vita sono compatibili con la pra­tica sportiva. E non si tratta solo di non bere e non fumare, ma anche di sapersi alimentare correttamen­te, di non eccedere nell’attività ses­suale, di rispettare un corretto e­quilibrio tra il sonno e la veglia, per non parlare della costanza negli al­lenamenti, che per definizione im­plicano sudore e fatica. I sacrifici, insomma, sono richiesti anche a chi si dedica allo sport, che di soli­to è annoverato tra le attività pia­cevoli.  
Una Pasqua di consumo
L’eclissi della Quaresima riversa le sue conseguenze anche sulla Pa­squa. La festa più importante della cristianità è oggi ridotta dalla pub­blicistica del consumo a poco più che uova e gita fuori porta. Ai bambini, fin dalle scuole dell’in­fanzia ed elementari, viene pre­sentata spesso come una generica «festa della Primavera», che cele­bra il risveglio della natura dopo il letargo invernale. E molti ritengo­no che celebrare la Pasqua in una società ormai multiculturale come la nostra rechi offesa al senso reli­gioso di quanti hanno un altro cre­do. La scuola è in prima linea in questo modo di pensare. Ma se la scuola rinuncia a trasmettere le basi della nostra cultura, come po­trà sviluppare poi il discorso sul re­sto delle necessarie cono­scenze? Quanto, infatti, del mistero di Pasqua c’è nella storia dell’arte, della lette­ratura, della musica, del pensiero? Quanto non sa­rebbe più comprensibile della storia di questi ultimi duemila anni senza fare più riferimento agli avveni­menti storici che i cristiani pongono a fondamento della loro fede? Probabil­mente un buon 80-90 per cento, se non di più. E quindi estromettere queste informazioni basilari dal­l’insegnamento equivale a far studiare la matematica saltando del tutto le tabelli­ne. Impossibile. Inoltre, proprio perché il discorso è di natura culturale, si può rispondere all’obiezione sul presunto rispetto nei con­fronti degli alunni di altre religioni. Questa obiezione è il frutto di un fondamen­tale fraintendimento tra scuola e catechismo. Vi è infatti chi pensa ancora (o a volte fa finta di non sapere) che a scuola, quan­do si parla di reli­gione cattolica, si faccia il catechi­smo. Nulla di più errato. Persino nell’ora di religione questa confusione di ruoli non esiste.
Compito della scuola è innanzitut­to trasmettere nozioni corrette e complete. Compito del catechi­smo è invece istruire nella fede, coloro che liberamente hanno scelto di aderirvi. Quindi ricordare che secondo i cristiani l’uomo Ge­sù è anche vero Dio e che è risusci­tato dai morti è profondamente di­verso dall’affermare: «Io credo nel­la Risurrezione di Gesù». Se al con­trario si affermasse definitivamen­te l’erronea convinzione secondo cui della Pasqua non si deve parla­re a scuola per rispetto a chi cri­stiano non è, il pericolo sarebbe un altro. Quello di privare gli alun­ni di tutta una serie di informazio­ni indispensabili per la loro suc­cessiva carriera scolastica. Tutto ciò riguarda anche i figli degli im­migrati di diverse fedi. I quali si troverebbero a vivere in un mondo quasi completamente indecifrabi­le senza quelle conoscenze basilari di cui essi, oltre tutto, sono più a digiuno degli altri, non potendo neanche disporre delle primarie mediazioni culturali date agli au­toctoni dalle proprie famiglie. Al­tro che rispetto, dunque. Nei loro confronti, al danno si aggiunge­rebbe la beffa. Proprio in nome di quell’integrazione e di quell’acco­glienza di cui oggi tanto si parla.

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