Dov'è l'Ararat?
Da Avvenire del 19 settembre 2010, servizio di Aldo Ferrari
La fama universale del monte Ararat – il monte di Noé, il monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il diluvio universale – si basa sul celebre passo di Genesi 8,4: «Nel settimo mese, il 17 del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat [al harey Ararat]». Piuttosto che ad un monte specifico, questa espressione ebraica appare infatti riferibile a una regione di montagna, secondo il duplice significato del termine har. Tale regione montuosa va senz’altro identificata con l’Urartu, il vasto territorio compreso tra i laghi di Van, Urmia e Sevan in cui fiorì tra il X ed il VI secolo a.C. un regno potente, a lungo rivale di quello assiro e distrutto infine dai Medi. Ararat e Urartu sono infatti solo diverse vocalizzazione della stessa parola.
Tuttavia, a partire dal VI secolo a.C., in conseguenza della fusione degli abitanti originari con popolazioni di lingua indoeuropea, la regione dell’antico regno urarteo inizio ad essere denominata Armina nelle fonti persiane. Da allora e sino al genocidio del 1915 questo territorio e stato universalmente conosciuto come Armenia. L’identificazione tra l’Urartu/Armenia e la regione dei «monti dell’Ararat» su cui si fermò l’Arca di Noé risulta in effetti assai antica e diffusa in tutto il mondo cristiano, condivisa già da Efrem il Siro e san Girolamo. Non a caso, nella Vulgata l’espressione al harey Ararat è tradotta con super montes Armeniae.
L’esatta localizzazione dell’Ararat costituisce invece un problema di difficile soluzione; per alcuni persino un falso problema, derivante soprattutto dal desiderio di precisare una geografia ben poco definita come quella biblica. Si tratta in ogni caso di una questione complessa, affascinante, per molti aspetti anche sorprendente. A partire dal fatto che nessuno dei popoli dell’area usa il termine Ararat per indicare il massiccio vulcanico che oggi viene comunemente identificato con il monte sul quale discese l’Arca di Noé. Gli Armeni, infatti, lo chiamano Masis, i Curdi Ciyaye Agiri (monte Fiero), i Turchi Aéri Daéi (monte Penoso), gli Arabi Jabal al-Haret (monte dell’Aratore). Il nome persiano, invece, ricollega esplicitamente questo monte alla narrazione biblica: Kuh-i-Nuh,
vale a dire monte di Noé.
Inoltre, l’identificazione di questo monte con l’Ararat biblico risulta piuttosto recente. Anticamente, infatti, l’Ararat era collocato più a sud, nella regione montuosa nota come Corduene/Kordukh, situata all’interno dell’Armenia storica, ma collegata anche ai Curdi, che per millenni hanno abitato territori posti ai confini meridionali di quelli armeni. Così, nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio ricorda che l’Arca sarebbe approdata sul «monte dei Kordyaioi», mentre le versioni siriache della Bibbia rendono il toponimo Ararat con Ture Kardu, vale a dire «monti del Kurdistan». In questa tradizione il luogo in cui si posò l’Arca era individuato nel monte Judi, una vetta di circa 2100 metri situata nel sud dell’odierna Turchia; tale localizzazione venne in seguito accolta anche nel Corano.
Questa collocazione meridionale dell’Ararat è presente anche nei primi testi armeni. La controversa opera storica del V secolo, tradizionalmente attribuita a Fausto di Bisanzio, narra che il vescovo siriaco Giacomo di Nisibi, vissuto circa un secolo prima, era stato «prescelto da Dio perche andasse dalla sua città sulle montagne dell’Armenia, sul monte Sararad, nel territorio della signoria dell’Ayrarat, nella provincia di Korduk... Costui, una volta giunto, mosso da un ardente e impetuoso desiderio, supplicava Dio di poter vedere l’arca della salvezza costruita da Noé, che si era fermata su quel monte dopo il diluvio».
Come è stato osservato, mentre il toponimo Ayrarat – evidentemente collegato a Urartu/Ararat – designa la regione centrale del regno d’Armenia, il monte Sararad al quale fa riferimento questo testo «coincide di fatto con il toponimo Ararad con cui la Bibbia armena, agli inizi del v secolo, rendeva il greco della Settanta». In quest’epoca, dunque, gli Armeni condividevano con i loro vicini la collocazione meridionale dell’Ararat biblico, ai confini della Mesopotamia, peraltro sempre all’interno del loro territorio storico. La tardiva identificazione da parte degli Armeni dell’Ararat biblico con il monte al quale viene oggi generalmente associato è evidenziata anche dal fatto che, come si è detto, essi lo chiamano tradizionalmente Masis.
Per la verità esistevano altri monti di questo nome nell’altopiano armeno: uno nei pressi del lago di Van, oggi noto come monte Sipan, un altro nel Tauro orientale. Anche l’eroe sumero Gilgamesh, nella sua ricerca dell’immortalità, raggiunse un monte chiamato in maniera assai simile, Mashu, collocato all’estremità settentrionale del mondo; il che, per un abitante della Mesopotamia, poteva ben significare l’altopiano armeno. Non vi è dubbio, tuttavia, che sia proprio il Masis più settentrionale, quello attualmente identificato con l’Ararat biblico, ad avere un posto centrale nella storia e nella cultura armena sin dall’antichità. In ogni caso, indipendentemente dall’identificazione con l’Ararat biblico, il Masis ha sempre avuto un significato particolarissimo nella coscienza degli Armeni, che lo chiamavano «Azatn Masis», cioè «libero» o «nobile».
Soprattutto la sua vetta più alta era ritenuta particolarmente sacra, perché considerata il luogo in cui il sole riposava nelle ore notturne e vivevano i khaj, esseri mitici protettori dei re armeni. Dal carattere sacrale di questa vetta nasceva anche il divieto di raggiungerla. Cosa che secondo la tradizione riportata da un altro controverso autore del V secolo, Agatangelo, avrebbe fatto solo il re Trdat (Tiridate), pochi anni dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo – avvenuta tradizionalmente nel 301 – e unicamente allo scopo di trarvi delle pietre da utilizzare per la costruzione delle chiese. Tra gli Armeni, dunque, il Masis godeva di un enorme – pur se per molti aspetti inquietante – prestigio ancor prima della sua identificazione con l’Ararat biblico, iniziata solo a partire dal XII secolo, dopo l’intenso contatto che gli Armeni ebbero con il mondo cristiano occidentale in seguito alle Crociate. I missionari cattolici ed altri viaggiatori che da allora attraversarono l’Armenia riportarono infatti in Europa la notizia che il monte dell’Arca si trovava all’interno di questo Paese.
E non nelle regioni meridionali, i cui monti non spiccano per particolare imponenza, ma nella vetta più alta del territorio armeno. A questo, tuttavia, gli Armeni aggiunsero anche un’attenzione particolare alla figura di Noé come primo viticoltore. Una volta identificato il Masis con l’Ararat, fu agevole affermare che «uscendo dall’Arca e discendendo dalla montagna, Noé piantò un giardino in quel luogo». In questo modo l’immagine dell’Ararat si fonde nella cultura armena con quella della vigna, del giardino. E, nonostante le tragiche vicende storiche subite da questa terra, presto iniziò a diffondersi anche l’identificazione dell’Armenia con il Giardino dell’Eden.
La fama universale del monte Ararat – il monte di Noé, il monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il diluvio universale – si basa sul celebre passo di Genesi 8,4: «Nel settimo mese, il 17 del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat [al harey Ararat]». Piuttosto che ad un monte specifico, questa espressione ebraica appare infatti riferibile a una regione di montagna, secondo il duplice significato del termine har. Tale regione montuosa va senz’altro identificata con l’Urartu, il vasto territorio compreso tra i laghi di Van, Urmia e Sevan in cui fiorì tra il X ed il VI secolo a.C. un regno potente, a lungo rivale di quello assiro e distrutto infine dai Medi. Ararat e Urartu sono infatti solo diverse vocalizzazione della stessa parola.
Tuttavia, a partire dal VI secolo a.C., in conseguenza della fusione degli abitanti originari con popolazioni di lingua indoeuropea, la regione dell’antico regno urarteo inizio ad essere denominata Armina nelle fonti persiane. Da allora e sino al genocidio del 1915 questo territorio e stato universalmente conosciuto come Armenia. L’identificazione tra l’Urartu/Armenia e la regione dei «monti dell’Ararat» su cui si fermò l’Arca di Noé risulta in effetti assai antica e diffusa in tutto il mondo cristiano, condivisa già da Efrem il Siro e san Girolamo. Non a caso, nella Vulgata l’espressione al harey Ararat è tradotta con super montes Armeniae.
L’esatta localizzazione dell’Ararat costituisce invece un problema di difficile soluzione; per alcuni persino un falso problema, derivante soprattutto dal desiderio di precisare una geografia ben poco definita come quella biblica. Si tratta in ogni caso di una questione complessa, affascinante, per molti aspetti anche sorprendente. A partire dal fatto che nessuno dei popoli dell’area usa il termine Ararat per indicare il massiccio vulcanico che oggi viene comunemente identificato con il monte sul quale discese l’Arca di Noé. Gli Armeni, infatti, lo chiamano Masis, i Curdi Ciyaye Agiri (monte Fiero), i Turchi Aéri Daéi (monte Penoso), gli Arabi Jabal al-Haret (monte dell’Aratore). Il nome persiano, invece, ricollega esplicitamente questo monte alla narrazione biblica: Kuh-i-Nuh,
vale a dire monte di Noé.
Inoltre, l’identificazione di questo monte con l’Ararat biblico risulta piuttosto recente. Anticamente, infatti, l’Ararat era collocato più a sud, nella regione montuosa nota come Corduene/Kordukh, situata all’interno dell’Armenia storica, ma collegata anche ai Curdi, che per millenni hanno abitato territori posti ai confini meridionali di quelli armeni. Così, nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio ricorda che l’Arca sarebbe approdata sul «monte dei Kordyaioi», mentre le versioni siriache della Bibbia rendono il toponimo Ararat con Ture Kardu, vale a dire «monti del Kurdistan». In questa tradizione il luogo in cui si posò l’Arca era individuato nel monte Judi, una vetta di circa 2100 metri situata nel sud dell’odierna Turchia; tale localizzazione venne in seguito accolta anche nel Corano.
Questa collocazione meridionale dell’Ararat è presente anche nei primi testi armeni. La controversa opera storica del V secolo, tradizionalmente attribuita a Fausto di Bisanzio, narra che il vescovo siriaco Giacomo di Nisibi, vissuto circa un secolo prima, era stato «prescelto da Dio perche andasse dalla sua città sulle montagne dell’Armenia, sul monte Sararad, nel territorio della signoria dell’Ayrarat, nella provincia di Korduk... Costui, una volta giunto, mosso da un ardente e impetuoso desiderio, supplicava Dio di poter vedere l’arca della salvezza costruita da Noé, che si era fermata su quel monte dopo il diluvio».
Come è stato osservato, mentre il toponimo Ayrarat – evidentemente collegato a Urartu/Ararat – designa la regione centrale del regno d’Armenia, il monte Sararad al quale fa riferimento questo testo «coincide di fatto con il toponimo Ararad con cui la Bibbia armena, agli inizi del v secolo, rendeva il greco della Settanta». In quest’epoca, dunque, gli Armeni condividevano con i loro vicini la collocazione meridionale dell’Ararat biblico, ai confini della Mesopotamia, peraltro sempre all’interno del loro territorio storico. La tardiva identificazione da parte degli Armeni dell’Ararat biblico con il monte al quale viene oggi generalmente associato è evidenziata anche dal fatto che, come si è detto, essi lo chiamano tradizionalmente Masis.
Per la verità esistevano altri monti di questo nome nell’altopiano armeno: uno nei pressi del lago di Van, oggi noto come monte Sipan, un altro nel Tauro orientale. Anche l’eroe sumero Gilgamesh, nella sua ricerca dell’immortalità, raggiunse un monte chiamato in maniera assai simile, Mashu, collocato all’estremità settentrionale del mondo; il che, per un abitante della Mesopotamia, poteva ben significare l’altopiano armeno. Non vi è dubbio, tuttavia, che sia proprio il Masis più settentrionale, quello attualmente identificato con l’Ararat biblico, ad avere un posto centrale nella storia e nella cultura armena sin dall’antichità. In ogni caso, indipendentemente dall’identificazione con l’Ararat biblico, il Masis ha sempre avuto un significato particolarissimo nella coscienza degli Armeni, che lo chiamavano «Azatn Masis», cioè «libero» o «nobile».
Soprattutto la sua vetta più alta era ritenuta particolarmente sacra, perché considerata il luogo in cui il sole riposava nelle ore notturne e vivevano i khaj, esseri mitici protettori dei re armeni. Dal carattere sacrale di questa vetta nasceva anche il divieto di raggiungerla. Cosa che secondo la tradizione riportata da un altro controverso autore del V secolo, Agatangelo, avrebbe fatto solo il re Trdat (Tiridate), pochi anni dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo – avvenuta tradizionalmente nel 301 – e unicamente allo scopo di trarvi delle pietre da utilizzare per la costruzione delle chiese. Tra gli Armeni, dunque, il Masis godeva di un enorme – pur se per molti aspetti inquietante – prestigio ancor prima della sua identificazione con l’Ararat biblico, iniziata solo a partire dal XII secolo, dopo l’intenso contatto che gli Armeni ebbero con il mondo cristiano occidentale in seguito alle Crociate. I missionari cattolici ed altri viaggiatori che da allora attraversarono l’Armenia riportarono infatti in Europa la notizia che il monte dell’Arca si trovava all’interno di questo Paese.
E non nelle regioni meridionali, i cui monti non spiccano per particolare imponenza, ma nella vetta più alta del territorio armeno. A questo, tuttavia, gli Armeni aggiunsero anche un’attenzione particolare alla figura di Noé come primo viticoltore. Una volta identificato il Masis con l’Ararat, fu agevole affermare che «uscendo dall’Arca e discendendo dalla montagna, Noé piantò un giardino in quel luogo». In questo modo l’immagine dell’Ararat si fonde nella cultura armena con quella della vigna, del giardino. E, nonostante le tragiche vicende storiche subite da questa terra, presto iniziò a diffondersi anche l’identificazione dell’Armenia con il Giardino dell’Eden.
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